Riflessioni sul rapporto tra la pastorizia e la Sardegna

di Carlo Arthemalle

I pastori sono ritornati in piazza, puntuali come la siccità e le inondazioni lungo le fasce costiere dell’Isola. La rivendicazione è quella che abbiamo sentito tante altre volte; si chiede che il prezzo del latte di pecora venga pagato ad un prezzo più alto, tale da coprire i costi di produzione e da assicurare margini che consentano di mantenere in piedi le aziende interessate e di far campare le famiglie dei loro conduttori.

I nostri allevatori, soprattutto gli uomini che li guidano in queste battaglie, non sono degli sprovveduti, sanno che il mercato ha le sue regole e che nelle compravendite non è solo il venditore a fissare il prezzo; sanno – questi signori – che se questa regola vale per i prodotti più sofisticati, non può certo essere ignorata per il cacio che mandiamo in America, una merce che, per patriottismo, classifichiamo genericamente matura, ma che ci guardiamo bene dal consumare. I pastori e i loro rappresentanti sanno che il prezzo del latte dipende da una serie di variabili che maturano in Sardegna, ma soprattutto fuori dall’Isola. La principale variabile che quest’anno ha fatto “impazzire” i conti è, ancora una volta, il sullodato pecorino romano.
Noi ci eravamo impegnati a immetterne sul mercato una certa quantità e poi, un po’ perché non siamo gente di parola e un po’ perché il consorzio incaricato di controllare il rispetto degli impegni assunti è una struttura da burla; siamo andati così ben oltre la quantità fissata, offrendo alle ferree leggi della domanda e dell’offerta l’occasione di castigarci. Ora che nel settore è stata sancita una tregua vogliamo provare ad affrontare l’argomento che riguarda la pastorizia e il suo rapporto con la Sardegna? Vogliamo provare a farlo depurandolo da quelle scorie di folklore che impediscono di ragionare oggettivamente ogni volta che parliamo di pecore e di pastori?

Cominciamo intanto col definire la dimensione del problema: quanto “pesa” l’allevamento ovi-caprino nell’economia della Sardegna? Il rapporto CRENOS per il 2017, quantifica questo peso pari al 7,8% dell’apporto complessivo del settore agricolo alla composizione del PIL della nostra Isola. La metà di questo apporto è imputabile agli allevamenti e solo una metà degli allevamenti è composta (anche in termini di valore) dal comparto ovino.
Se la matematica non è una opinione, quindi, quello che chiamiamo “Comparto agropastorale sardo” vale il 2% di quanto si produce e si consuma in Sardegna. Non è poco certamente, ma raccontare che senza pecore tutti noi “sardignoli” non riusciremmo a vivere e che i pastori sono la colonna portante della nostra economia non è soltanto una esagerazione, ma è esattamente il suo contrario.

L’esperienza degli ultimi trent’anni denuncia chiaramente che la pastorizia sarda non è in grado di stare sul mercato contando sulle sue forze e che può continuare ad esistere solo grazie a sovvenzioni pubbliche, sempre più difficili da elargire per la presenza di trattati commerciali sovranazionali.
Fino a qualche anno fa le cose andavano un po’ meglio perché le pecore si nutrivano ancora col pascolo brado e il loro nutrimento risultava quasi gratuito per il pastore, ma con la tendenza in atto di allevare il bestiame in stalla e di nutrirlo con mangimi composti le cose sono mutate radicalmente.
L’allevamento ovino, infatti, sta “mutando pelle”, nel senso che sta entrando nella categoria degli “allevamenti senza terra”, e quindi, al pari delle porcilaie e degli allevamenti avicoli, deve sottoporsi alla dura legge secondo la quale è il venditore di mangimi che decide quanto l’allevatore deve guadagnare.
Inoltre, il mercato dei latticini, che in Europa propone al consumatore circa cinquecento etichette, è controllato da filiere che partendo dal prato pascolo e passando per la stalla e il caseificio arrivano alla grande distribuzione.

Ognuna di queste filiere fa capo a un’unica regia che si avvale di investimenti imponenti nella ricerca e nella pubblicità. In Sardegna, viceversa, le principali componenti del sistema (razione animale, produzione lattea, trasformazione, commercializzazione) sono slegate le une dalle altre e in perpetua contrapposizione tra di loro.
La maggior parte del latte che proviene dai nostri allevamenti viene trasformato in pecorino romano che, tramite intermediari, viene venduto negli Stati Uniti e in Canada. Insomma, in un mercato altamente competitivo, abbiamo la pretesa di recitare la nostra parte presentandoci con un solo prodotto e contando solo su uno o due clienti.
Il mondo che ruota attorno agli ovili, conscio di questa debolezza, da tempo sta tentando di correre ai ripari ma, invece di intervenire sui punti di debolezza del sistema di allevamento prevalente, si è limitato a cambiamenti marginali, adottando la stalla e la mungitrice:
ma guardandosi bene dall’affrontare i veri nodi del problema, che sono quelli che abbiamo sopra elencato.
Per conquistare il diritto a sopravvivere, il comparto pastorale ha puntato tutto sul rapporto con la politica; ha deciso, cioè, che fosse la comunità ad addossarsi le conseguenze delle criticità che hanno colpito aziende allevatrici e caseifici cooperativi, iniziando un duro confronto col potere politici che da tempo sta caratterizzando la vita politica dell’Isola.
In questo confronto, i pastori si sono dati il ruolo di truppe d’assalto, la Regione sarda ha rappresentato la fortezza da espugnare, mentre agli intellettuali di alcune scuole di pensiero è stato riservato il compito di vigilare nelle retrovie e di spiegare al popolo che i pastori sono l’emblema della fierezza e delle tradizioni della popolazione isolana, per cui i pastori fanno bene a fare quello che fanno.

La mobilitazione dell’opinione pubblica ha risposto puntualmente solidarizzando coi pastori ogni volta che la loro protesta si è riproposta, costringendo la Regione a erogare provvidenze, un poco per quieto vivere e un poco di più per paura.
Oggi, soltanto un irresponsabile può pensare di “chiudere” definitivamente la questione pastorale cancellando 13.000 aziende e sopprimendo un’attività così radicata nel territorio. L’allevamento ovino non va “cancellato” dall’Isola; ma va, invece, profondamente cambiato, mettendo in campo progetti, ricerca, managerialità e anche risorse.
A questo punto è la classe politica regionale che deve trovare il coraggio di intervenire, aiutando tutti gli operatori interessati ad agire, facendo confluire sotto un’unica regia quelli che si occupano che si occupano della cura degli animali, gli allevatori, gli operatori dell’industria casearia e quelli delle attività di distribuzione.
Insomma, per il pecorino si deve realizzare davvero una filiera, come è stato fatto in Val Padana con i Consorzi del Parmigiano e come, su piccola scala, è stato fatto ad Arborea, col latte vaccino. Tutti quanti dobbiamo capire che l’unica strada da seguire è l’innovazione e che intestardirsi a difendere “su connottu” (ciò che già si conosce) è una scelta da sconsiderati.

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